Questo racconto, ‘Sheed the Shield, è contenuto all’interno del volume Shadows – Hooligans. Potete acquistarlo cliccando qui, se volete, non ne rimangono molte copie.
Le illustrazioni a corredo di questo racconto sono di quel drago di Giorgio Abou Mrad (e sì, sono proprio fighe).
Si scende nelle tetre strade della Città delle Ombre.
‘SHEED THE SHIELD
La macchina ripartì sgommando e lasciando diversi strati di copertone sull’asfalto. C’era odore di benzina nell’aria e per certi aspetti questa poteva considerarsi una bella giornata. Olsten se ne stava lì seduto sul marciapiede a mormorare vecchie imprecazioni in salsa blues mentre un tossico pisciava sul muro a un metro da lui.
Megaschermi a led a ridosso di centri commerciali e cani randagi. Negozi di telefonia e case in rovina divorate da edera e graffiti. Folle disperate di uomini che camminano per la strada a ritmo di metronomo seguendo le loro grigie esistenze. Ammassi di corpi che si muovono tutti uguali verso le stesse stazioni di morte spirituale. Sono ombre. Ombre che si allungano o accorciano a seconda dell’ora e del momento di vita.
E di ombre è pieno il quartiere di Bayside, uno dei polmoni della città. Uno stantuffo impregnato di catrame in cui zaffate di acqua salmastra si mescolano a profumo di libertà.
Rasheed le inalava ogni mattina, le rollava in ipotetiche sigarette come se non ci fosse nient’altro per lui. E non conosceva davvero nient’altro. Nato e cresciuto in questo lembo di fango e calcestruzzo, non aveva mai messo più di tanto il naso fuori dalla zona urbana. Non aveva mai visto il mondo, e forse era un bene. Forse quel mondo lo avrebbe soffocato, o forse sarebbe stato lui a mettergli le mani addosso e a piegarlo alla sua volontà. Il sogno segreto di ogni uomo che spesso si trasforma nella sconfitta segreta di ogni uomo.
Perché è questo che fa la Città delle Ombre. Come un’enorme fica materna, ti attrae. Ti inghiotte e ti lascia ammorbato in una dolce e cullante sensazione di calore, in un effimero e avvolgente spasmo di piacere. Il piacere di non avere sorprese, di sapere quale merda aspettarsi e di aprire la bocca abbastanza per ingoiarla senza pensieri, come un pessimo hamburger. Il piacere di rimanere fermi.
Rasheed però non si era mai fatto tutte queste seghe mentali. Non si era mosso dal concetto di fica, e di certo non materna. Gli piacevano, le ragazze. Ah, se gli piacevano. E qualche cazzata l’aveva fatta a causa loro. Come quella volta che picchiò Aaron Willow, al liceo, perché era il ragazzo per cui andava matta la sua favorita, e lui ne era invidioso. Gli spaccò tutti i denti in un bagno e poi glieli buttò nel cesso.
O quando anni dopo ebbe un acceso dibattito intellettuale con Omar il Becchino perché diceva in giro che la donna di Rasheed avesse la fica più larga del buco dell’ozono. Omar non uscì più dal cimitero in cui lavorava. Almeno, non con le sue gambe.
Ma era una delle poche cose che smuovevano quell’uomo, grigio, anonimo e dall’anima nera come la sua pelle. Un tipo abitudinario, che talvolta ragionava con il cazzo.
Ogni mattina colazione al porto, ai docks. Tazzone di caffè bollente e sigaretta sul molo, poi corsetta e allenamento. Gli piaceva tenersi in forma. È così che si conquistano le donne, diceva, con un bel fisico. E poi doveva far scendere quella cazzo di pancetta da alcolici. Inaccettabile per uno come lui, anche se non si può proprio dire che avesse un culto del corpo. Troppo trasandato per curarsene davvero. Una volta lo faceva, quando ne valeva la pena, quando doveva essere in forma per guadagnarsi il rispetto sul campo. Ma erano tempi lontani.
A fargli compagnia al pomeriggio spesso c’era il caro amico Joseph. Nulla di che. Dell’amico non si butta via niente, dice il proverbio.
Non facevano grandi conversazioni, si limitavano a passeggiare per la città. Rasheed non era molto bravo con le parole. “Sono come i chewing-gum, mi piace masticarle ma non sputarle”. Filosofia da fast food.
E Joseph non lo aiutava molto.
Joseph era paraplegico.
Ljuba, l’attuale e più longeva fiamma di Rasheed, gli diceva sempre che Joseph le sembrava un’abat-a-jour senza lampadina: dove lo metti sta, ma non puoi accendere mai la luce in lui. Rasheed soffriva nel sentire queste parole, ma Ljuba era così. Tutta capelli biondi, occhi azzurri, tette bianche e la sensibilità di un sasso in uno stagno.
Rasheed accompagnava Joseph in interminabili giri in carrozzina quasi tutti i giorni. Salvo quando doveva lavorare o scopare con Ljuba, s’intende. Alla fica non si può mai dire di no, soprattutto una fica rasata come quella della ragazza di Minsk.
Il giro era sempre lo stesso, compresa la tappa fissa in Exile Square. Che era tutto meno che un caso: c’erano dei campetti lì, dove i due compari si fermavano a guardare giocare a basket. I playground di Exile Square erano tra i più battuti della città. Non potevi mettere piede in campo se non sapevi tenere una palla in mano. O se non avevi una storia.
In quel momento era in corso proprio una partitella tra ragazzi. Tre contro tre.
Rasheed osservava attentamente. Gli piaceva guardare i ragazzi giocare, rivedeva se stesso quand’era oltre che giovane anche un habitué di queste colate di cemento e sudore. Quando si scommetteva su queste partite e i campioni dei playground facevano un sacco di soldi ed erano temuti e rispettati. Come Trevor “Helicopter” Hammond, che abitava vicino a casa sua e volava in cielo come se avesse delle pale al poso delle mani.
E a proposito di mani, è doveroso ricordare Delonte “Hammer” Barner, detentore del record di ferri rotti per le sue schiacciate bimani. O Ramon “Bang bang bang” Castillo, un ispanico che segnava da tre punti con la stessa facilità con cui sparava a chi gli faceva girare le palle.
E poi c’era il suo mentore.
Earl.
Lo chiamavano con tanti nomi, forse nessuno a parte sua madre avrebbe potuto dire la verità su questo aspetto. Ma è importante un nome? È solo la maniera con cui identifichiamo qualcuno. Un tentativo di mettere ordine, mentre Earl era il caos. Caos che si trasformava in armonia quando aveva una palla da basket in mano. Rumore che diventa sinfonia, piscio che si trasforma in vino.
Si chiamava Earl Ward, ma per tutti era semplicemente “The King under the board”.
Le sirene della polizia interruppero il flusso di ricordi. Tre volanti scivolarono nella zona e diversi agenti armati si catapultarono in campo gettando nello scompiglio i giovani giocatori.
Gli sbirri avevano violato un luogo sacro, anni fa questo non sarebbe stato possibile. Ma i tempi erano cambiati così in fretta.
Guardali là, sempre così coraggiosi. In otto, armati, per fermare sei coglioncelli con la barba ancora troppo a chiazze per fare i vissuti. Manganelli, pistole spianate, urla intimidatorie, cazzi piccoli e mogli insoddisfatte. Ecco cosa sono gli sbirri, nel quartiere di Bayside. Rasheed si godeva la scena. A uno dei ragazzi abbassarono i pantaloni e le mutande, e ne uscì un piccolo sacchettino di roba. “Ma Cristo santo, puoi giocare con la droga negli slip?” pensò.
Poi vennero tutti caricati a forza nelle auto e la cosa finì lì. Tanto casino per due piccoli pusher da strapazzo. Sono sempre loro che ci rimettono, mai i fornitori che stanno in alto. Lo sapeva bene. Lo aveva fatto anche lui, ai tempi. Invece che fare il chierichetto, da ragazzino in quella zona spacci. E’ una maniera per stare nella comunità, invece che portare ostie porti cristalli. Non è poi così distante come concetto.
Rasheed si alzò, andando verso il canestro dove prima infuriava la partita. Nella concitazione, il pallone era rimasto lì a terra.
Era una palla un po’ raffazzonata, quasi copertone puro, di quelli da usare all’aperto. Impregnato di polvere, fatica e odore di pallacanestro. Aveva i suoi anni, c’era la scritta “nba official” molto sbiadita e a fianco scritti in pennarello indelebile diversi nomi e soprannomi. Forse erano i vari proprietari del pallone. Rasheed fece ruotare la sfera tra le mani. Erano anni che non giocava più a basket. Aveva smesso di colpo. Portò il pallone sopra la testa e fece un fiacco tiro appoggiandosi al tabellone. La palla entrò nel canestro e Rasheed sentì il suono della retina metallica. Fu come immergersi nei ricordi.
– Allora non ti sei dimenticato come si gioca, brutto negro di merda.
Rasheed ebbe un sussulto e riconobbe quella voce. L’avrebbe riconosciuta tra mille.
– E’ un bel po’ che non ti fai vedere da queste parti. Cos’è, eri stufo di fartela sotto? O venire a salutare gli amici è troppo da bianchi fighetti per te? – continuò.
– Ho avuto di meglio da fare – Rispose Rasheed.
Poi si girò, e lui era lì. In piedi, appoggiato alle reti che delimitavano il campo. Sembrava uscito da un film di Spike Lee.
L’uomo si avvicinò. Era un po’ più basso di Rasheed, meno muscoloso ma comunque ben piantato. Si massaggiava la pelata e mostrava orgoglioso due fila di denti gialli che risplendevano sinistri in una mascella da pugile. Il corpo pieno di tatuaggi e cicatrici, la pelle nera come la notte. Gli occhi di un diavolo.
– Eri stanco di prendertele, ‘Sheed, come tutti. Come tutti quelli che vogliono battere il re. Non avevi abbastanza palle. Non le hai mai avute.
Senza dire una parola Rasheed si voltò nuovamente per andarsene.
– Non puoi scappare per sempre. Io ti sfido, ‘Sheed.
Rasheed si arrestò improvvisamente.
– Non sei più quello di una volta, Earl. – gli rispose, senza guardarlo.
– Scommettiamo?
– Se vinci non ho soldi da darti.
– Ma chi se li incula i soldi. Parlo di qualcosa che vale molto di più. Il rispetto. Se mi batti, potrai fregiarti del titolo di “king under the board”. Ma se perdi… Sarai mio. Hai capito?
Rasheed non seppe dire di no. Era come rapito. Non voleva scendere a patti con Earl e in quel momento della sua vita non era più desideroso di un titolo, ma c’era qualcosa in lui che gli impediva semplicemente di prendere e andarsene. Essere sfidati in Exile Square per molti non vale niente, ma per chi ha vissuto quell’asfalto è diverso. Era come onorare un debito di sangue.
E poi… Poi c’era dell’altro.
Qualcosa che si insinuò tra le pieghe della mente di Rasheed.
– Chiudi quella fogna.
– Così mi piaci, ‘Sheed. Allora ce le hai ancora le biglie tra le gambe. Comincia tu se vuoi. Si gioca con le vecchie regole. Vittoria a undici.
Rasheed prese la palla tra le mani e si piazzò sulla linea da tre punti. I suoi occhi erano fissi sul canestro. Davanti a lui Earl si abbassò leggermente in posizione di difesa.
Una volta avrebbe pagato per questo momento, ma ora era estremamente surreale. Non aveva più visto Earl da quella notte a Eagle Point. Erano passati ormai cinque anni. E tutto quello che aveva da dire ora era sfidarlo ad una partita a basket?
‘Sheed allargò leggermente le gambe, piegandosi sulle ginocchia. Cercò di muovere la palla per disorientare il suo avversario, che però si dimostrò velocissimo finendo per strappargliela con un colpo della mano destra.
– Lento. Lento come un bambino che non impara niente a scuola e dalla vita. Sei sempre stato una lumaca, ‘Sheed. –
Palla a Earl. Finta, controfinta, primo passo bruciante, terzo tempo in scioltezza e pallone appoggiato dolcemente al tabellone. Di nuovo il suono metallico della retina, ma stavolta ‘Sheed non era così felice di sentirlo.
– Uno a zero. Chi segna regna per cui… Palla al re.
Palleggio, palla sotto le gambe una due tre volte, altra partenza bruciante. Stavolta ‘Sheed era preparato ma nulla poté contro la virata improvvisa con finta di Earl che lo mise fuori gioco per un altro canestro facile. Un dream shake degno del maestro Hakeem Olajuwon.
– Due a zero. Vuoi arrenderti palle mosce? Almeno eviti l’umiliazione di rimanere a secco.
– Sta’ zitto, Earl.
La partita continuava, Rasheed non sembrava in grado di contenere il suo avversario.
– Dì un po’, vendi ancora quella roba ai bianchi?
– Ho smesso Earl. Ho smesso da tempo e lo sai.
– Peccato, grande e grosso come sei e con quella faccia da negro incazzato facevi bene il tuo compito. E io avrei un ultimo lavoretto per te…
– L’hai già detto una volta, e ricordi com’è finita. Ho chiuso. – Rasheed lasciò spazio a Earl che si arrestò infilando un bel canestro in sospensione dalla media distanza.
– Hai smesso anche di giocare a basket, vedo.
– Non mi piaceva più la squadra.
– Ma quale squadra, che cazzo te ne frega della squadra. Devi sempre giocare per te stesso, ‘Sheed. Degli altri non ti puoi mai fidare, sono solo un mucchio di stronzi del cazzo.
– Sei stato un buon insegnante in questo.
Tiro sbagliato del re e palla sul ferro. ‘Sheed vola a rimbalzo.
– E tu un ottimo allievo.
Earl fu più lesto strappando la palla ad un distratto Rasheed. Per poi appoggiare al tabellone e segnare nuovamente.
– Allora, ti scopi sempre la tua puttanella bianca?
‘Sheed con una spallata finì per buttare a terra Earl mentre tentava di superarlo.
– Ljuba. Si chiama Ljuba.
– Oh oh, vedo che ti scaldi a parlare di lei! Può chiamarsi anche leccocazzidisperatamente, non mi interessa. Te la scopi ancora, e tanto basta. Lei ha avuto buon gusto, devo dire, come tutte le bianche. Sono attratte da noi, e lo sai il perché vero?
– Lei è diversa.
– E in cosa sarebbe diversa, lo spicchietto di luna? È come tutte quelle mozzarelle vergini. Ma lei viene da un altro paese, ha il fascino della straniera. Perché tu non hai mai messo il culo fuori da qui, ecco perché ti piace. Ti fa sognare posti migliori. Lei ti ha portato via da qui, ‘Sheed, hai abbassato lo scudo, e ti ha mangiato il cervello, coglione.
– Lei è diversa.
– Non le piace il basket. E le faceva schifo questo tipo di vita, vero? Potevi avere tutto, ‘Sheed. Eri bravo. Potevi prendere il mio posto, potevi diventare il nuovo re. E invece non sei niente. Sei solo fango sotto le scarpe, rhum vomitato in un cesso chimico.
– Io non volevo questa vita. Non è stata lei a portarmi via, sono io che me ne sono andato.
Earl si arrestò un istante. Gli si gonfiarono le vene sulla testa, i suoi occhi strafatti di crack si arrossarono ancora di più.
– Perché io la volevo secondo te?! Ho pregato Dio nella pancia di quella puttana di mia madre per finire in questo buco di culo a rompermi le ginocchia per degli spiccioli? No, eppure è questa la vita per cui sono fatto. Per cui siamo fatti, ‘Sheed. Non dirmi che te la spassi ora, a fare il buttafuori e a respirare la felicità merdosa degli altri, mentre si ubriacano e scopano davanti a te. Mentre ti sventolano in faccia soldi e alito pieno di arroganza. E Poi non dirmi che andare allo stadio a vedere il calcio con quella stronzetta è meglio di una partita qui, nel luogo dove sei nato e cresciuto. –
Palla a Earl. Palleggio prolungato, cambio di mano sotto le gambe, partenza in palleggio. Step back, tiro in sospensione. di nuovo, solo il rumore della retina.
– Raccogli il pallone e passamelo, Sheed. Passalo al re. – Poi Earl continuò ad incalzare – Te la ricordi, vero?
‘Sheed tentò di guardare Earl negli occhi, ma una stranza forza magnetica gli impedì di farlo. Il suo sguardo si abbassò per ammirare la sua ombra.
– Non c’è giorno che me ne possa dimenticare.
– Quella notte a Eagle Point. Era andato tutto perfetto. Gli altri morti, e noi con quel carico folle di roba. Ma tu dovevi litigare con quella troia. E dovevi rispondere al telefono proprio in quel momento, mentre eri alla guida. Porca puttana. Dovevi andare a schiantarti contro quel cazzo di palo di merda. Come hai potuto essere così stronzo? Come hai potuto mandare tutto all’aria per una puttanata così?!?
Ci furono attimi di silenzio. Ma poi ‘Sheed alzò lo sguardo. Per la prima volta guardava Earl negli occhi.
– Come cazzo hai potuto? Avevi un cazzo davanti agli occhi? Eh?!?
– Mi dispiace, Earl.
– Me ne fotto se ti dispiace! Me ne fotto alla grande. Hai rovinato tutto, ‘Sheed. Sei sempre stato un cazzo di fallito di merda, e hai rovinato anche questo. Ma non solo, figlio di troia…
– Mi dispiace per l’incidente. Ma non puoi farmene una colpa per sempre! –
Earl con un paio di finte cercò di disorientare il suo avversario, ma Rasheed mantenne la posizione ergendosi come un gigante e stoppando il tiro del re. Come sapeva fare solo lui. Come sapeva fare quando tutti lo chiamavano “The Shield”.
– Tu sei scappato, figlio di puttana. – riprese Earl con voce tagliente – hai preferito tornare dalla tua puttanella invece che tirarmi fuori da quella Mercedes. Avevi paura di andare in galera, avevi paura di non rivederla più. Avevi paura dei cazzi in culo nelle docce della prigione, dei pezzi di vetro nella pancia. Avevi paura di aiutarmi. Invece volevi solo il fuoco di quella stronzetta. Hai barattato King Earl con Ljuba la puttana. Ecco cosa hai fatto. –
Canestro del re. Dieci a quattro.
Il volto di Rasheed si infiammò. Qualcosa dentro di lui, riaffiorò, qualcosa fece muovere la montagna. Divenne impenetrabile in difesa, Earl non riusciva più ad affondare i colpi. Su quel dieci a quattro le cose cambiarono.
– Credevo che fossi morto, Earl! Merda avevi pezzi di lamiera nel corpo, non rispondevi, e ho sentito le sirene. Cosa dovevo fare? Rimanere a reggertelo e farmi beccare con 30 kg di droga solo perché mi hai insegnato come si gioca a basket?!? –
Sheed ricordò i movimenti, la forza perforò ogni diga della sua mente ritornando esplosiva e anche in attacco ricominciò a essere produttivo.
– Io ti ho insegnato a vivere, negro.
– Balle! Non hai mai fatto niente per me, mai! Dicevi di volermi bene, che volevi solo il meglio per me ma non hai mai fatto una sega. Mi usavi solo per la roba e coprirti il culo. Per intimorire gli altri spacciatori perché ero grande e grosso. Volevi fare il padre con me per coprire la tua miseria ma alla fine te ne sei sempre fottuto. Stronzo. Solo un fottuto stronzo. –
Sei canestri di fila divisi tra schiacciate, tiri in sospensione e salti al di sopra della media. Era ritornato ‘Sheed “The Shield”.
Il gigante protettore del ferro. L’unico degno erede del re.
– Si, ho avuto paura, Earl. Paura di finire dentro per qualcosa che non volevo più fare e che non ho mai voluto fare. Volevo starne fuori. Pensi che sia da cacasotto avere paura? E allora lo sono. Ma tu e gli altri dovevate insistere, insistere. Non volevate lasciarmi uscire dalla vostra merda. Non lo accettavate, figli di puttana. –
Entrambi i contendenti erano stremati. Le loro teste erano una di fronte all’altra, si toccavano sorreggendosi su quel contatto, il fiato era vapore acido in grado di strappare via la carne. Due enormi cervi che combattevano, due atlanti che reggevano il mondo dell’altro sulle proprie spalle.
– Vaffanculo, Earl.
Spalle a canestro, Sheed cominciò ad avanzare facendo a spallate e sportellate contro Earl, che cercava di non perdere terreno.
– Vaffanculo, Earl. Vai a farti fottere insieme al tuo basket superato.
Rasheed arrestò il palleggio, prese la palla con due mani e in una frazione di secondo valutò la distanza dal canestro. Con un balzo disumano andò a schiacciare con entrambe le mani travolgendo Earl con tutta la rabbia che aveva in corpo. Una valanga in azione. Un fiume che sfora argini travolgendo case, persone e ricordi. Spaccò il ferro, tirando giù metà del tabellone. Sembrava un incrocio tra un kaiju e godzilla.
Il pallone cadde a terra rotolando lentamente verso il bordo del campo. ‘Sheed the Shield disse basta.
– Undici a dieci. Ho vinto Earl. Ora vattene. Non voglio il tuo titolo, mi ci pulisco il culo. Voglio solo che tu sparisca.
– Sei davvero sicuro di aver vinto, ‘Sheed? Guardati dentro, guardati attorno. Riesci a far entrare la luce del sole nella tua stanza? Riesci a vederla? Riesci ad aprire le finestre? –
E senza aggiungere altro se ne andò. Rapido come era arrivato, Earl si dileguò nel tempo di un sospiro, con la sua andatura molleggiata e strafottente.
Il sole stava cominciando a calare.
Il pallone rimbalzò lentamente fino ai piedi della carrozzina, andando a sbattere contro le gambe paralizzate di Joseph. Non ebbe sussulti. Continuava a preferire il vuoto di fronte a lui. Il vuoto dei suoi occhi e della sua mente. Il vuoto dei ricordi di quando anche lui veniva qui in Exile Square a giocare.
Rasheed si avvicinò alla carrozzina, alzò il bavero della camicia di Joseph per non fargli prendere freddo. Aveva paura che un colpo d’aria avrebbe potuto fargli venire mal di stomaco. E poi vai a pulirla la diarrea di un paraplegico.
Rasheed accompagnava Joseph in interminabili giri in carrozzina quasi tutti i giorni. Salvo quando doveva lavorare o scopare con Ljuba, s’intende. Alla fica non si può mai dire di no. Soprattutto una fica rasata come quella della ragazza di Minsk.
Perché, vi sarete chiesti?
‘Sheed era vivo. E doveva espiare le sue colpe. Una parte di lui voleva morire. Rimanere per sempre nell’oblio nella città delle ombre. Un’enorme stanza senza luci e finestre.
– Allora, come sta il nostro paziente? Ha fatto il bravo anche oggi? Dovresti portarlo a ballare, ogni tanto! – disse l’infermiera della casa di cura riferendosi a Joseph e cercando di risultare simpatica. Ma finendo con l’essere più inopportuna di un nudista in una chiesa cattolica.
Rasheed non ci fece caso, ci era abituato. Ma come cazzo le prendono le persone, qui, pensò. Ma in fondo, non aveva più importanza. Il giro era finito e salutò il suo amico paraplegico con il cuore in mano.
Era tempo per Earl Joseph Joshua Ward di ritornare nella sua, di stanza.
FINE